Il rumore delle pentole sistemate negli
stipiti era così assordante che non poteva far altro che svegliarlo. Ogni
mattina sua madre, nel riordinare la
cucina, faceva da sveglia per tutta la casa e come ogni giorno Samuele apriva
gli occhi sorpreso. Alle sette lo aspettava il viaggio per andare a lavoro, ma
non riusciva mai ad arrivare puntuale perché il letto sembrava quasi legarlo e
liberarsi dalla dolce morsa delle lenzuola era un castigo divino. Nella sua
mente sognava una vita di ozio in un villaggio del Messico, padrone di un
vecchio cascinale, a raccontare agli amici le storie delle sue avventure di
caccia e di pesca, in giro per il mondo.
Ma alle sette e venti, quando alla guida
della sua Alfa Romeo 159 grigia percorreva i 35 km che lo separavano dal
suo ufficio, la realtà gli si ripresentava davanti senza nessuna possibilità di
essere scambiata per il suo sogno, era sempre la stessa: doveva andare a
lavorare.
Samuele Giordano, 30 anni, ingegnere capo in
uno studio di progettazione, single per scelta, diceva lui, viveva con i suoi
genitori a Cangi, un paesino sul mare della provincia di Ibla.
In paese tutti lo conoscevano per il suo
modo di fare allegro, gentile, sempre disponibile con tutti, quel tipo di uomo
che piace alle mamme per la sua educazione, quel tipo di uomo che piace alle
figlie per la sua bellezza e il suo fascino.
"Hai sentito l’ingegnere
stamattina?" chiese la segretaria a Samuele appena entrato nello studio,
"No, figurati se appena sveglio penso al mio capo! Perché?",
"Sono le otto passate e ancora non si vede, sai bene che di solito
all’alba è già alla sua scrivania".
L’ingegnere Damiani, titolare dell’omonimo
studio di progettazione, era un uomo sulla sessantina, alto, con pochi capelli
bianchi e con due occhi azzurri da far venire i brividi a qualsiasi donna che
lo guardasse. Aveva fatto la sua fortuna coltivando le amicizie giuste
nell’ambito della politica provinciale, non disdegnando di scendere a
compromessi pur di ottenere i risultati voluti.
Nell’ambito delle inchieste di tangentopoli,
nei primissimi anni novanta, aveva subito delle indagini ma che non avevano
portato a niente che provasse le sue presunte pressioni sul presidente della
provincia Maniace, arrestato poi per aver ricevuto diverse mazzette dai boss
locali per l’aggiudicazione di appalti
pubblici. L’ingegnere Damiani aveva saputo uscire indenne da quelle
tempeste giudiziarie, grazie anche ad una straordinaria capacità di nascondere
il suo nome e soprattutto perché non figurava mai in prima persona negli affari
più compromettenti.
Da tutto quel trambusto, la sua figura ne
era uscita rafforzata, facendolo diventare quasi un simbolo dell’accanimento
della magistratura nei confronti di certi personaggi politici. Dalla seconda
metà degli anni novanta, aveva legato il suo nome a quello del partito di
Berlusconi, candidandosi come sindaco di Ibla nel 1995 e vincendo la
competizione al primo turno.
Da allora aveva triplicato i suoi affari e
aveva acquisito una popolarità straordinaria, ben oltre le mura della città,
partecipando a diversi gruppi di progettazione di grandi opere pubbliche
regionali e costruendosi la fama di uomo da tenersi caro, in tutti gli ambiti
della provincia.
Ricevuti due mandati da sindaco, dal 2005 era
stato eletto Senatore della Repubblica e lo studio di progettazione, fra i più
grandi della Sicilia, era diventato il centro da dove dirigeva ogni sua mossa.
Samuele aveva avuto la fortuna di entrare
a lavorare nello staff di Damiani grazie alle sue simpatie politiche per Forza
Italia che lo avevano fatto conoscere nell’ambiente e incontrare con l’ingegnere
ad un party elettorale. Da cinque anni, Samuele era entrato a far parte di
questa cerchia ristretta di persone che potevano fregiarsi di lavorare per
l’uomo più potente e ricco di Ibla.
"Hai provato a rintracciarlo al
cellulare?" chiese Samuele a Daniela, la biondissima segretaria dello
studio Damiani, "Certo" rispose, "ci provo dalle sette e
mezza, ma non c’è verso, il telefonino squilla ma non mi risponde. Non avrei
motivo di disturbarlo se non fosse per il fatto che alle nove deve firmare il
contratto con la Star Oil,
e volevo che controllasse che tutto era a posto per come mi aveva
chiesto".
Erano le nove e mezza e lo studio era in
completa agitazione, le ventuno persone che lavoravano al suo interno non
sapevano più che pesci prendere e nella sala riunioni, l’amministratore e due
ingegneri della Star Oil, la multinazionale che aveva incaricato Damiani di
progettare le due nuove stazioni di pompaggio del greggio da realizzare in
società con il senatore nei pressi di S. Giovanni, un’area montana della
provincia, fingevano male di non essere spazientiti.
Alle dieci e un quarto, entrò nell’ufficio
dell’ingegnere il suo vice, l’architetto Riannetti, che, pallidissimo, si
lasciò cadere sul divano in pelle nera che c’era nella stanza: "Non è
possibile, non è possibile" ripeté quasi in uno stato confusionale
"Cosa è successo?", incalzarono quasi in coro Samuele e Daniela
che stavano ancora tentando di rintracciare l’ingegnere al telefono, "qualche
problema con il contratto?", "Damiani è morto" disse
Riannetti.
Il gelo calò sui presenti, invano cercarono
di proferire parola, alla fine Samuele chiese con un filo di voce
"quando, come…". Asciugatosi il sudore e dopo aver bevuto un
goccio d’acqua Riannetti raccontò di aver ricevuto una telefonata da parte
della moglie dell’ingegnere Damiani che lo informava dell’accaduto: il
giardiniere di famiglia, recatosi come ogni mattina al casale in collina, aveva
trovato l’ingegnere brutalmente assassinato nella veranda della villa.
Le parole dell’architetto erano piombate
nell’ufficio come una doccia gelida e allo shock della notizia seguì quasi
immediatamente il caos della realtà, perché a pochi metri c’erano dei clienti
che attendevano da un’ora e mezza e certo presentarsi con una notizia del
genere significava, quasi sicuramente, perdere il contratto milionario, con
conseguenze irreparabili per tutto lo studio.
Riannetti fece tutto il possibile per
rientrare in se stesso e si presentò ai rappresentanti della Star Oil con un’aria
dimessa ma decisa: "Vogliate scusare il ritardo dell’ingegnere, ma
purtroppo il contratto non può essere firmato dal senatore Damiani in quanto
stamani è venuto a mancare". Aveva usato la formula più austera che aveva
trovato nel suo sterminato vocabolario e non aveva sbagliato, perché
l’efficacia della frase era stata immediata: con molto garbo i clienti si erano
alzati, e porgendo le loro condoglianze si erano congedati pacificamente.
Appresa la notizia, tutto lo studio era
scoppiato in uno sgomento silenzioso, che nemmeno l’arrivo dei Carabinieri
aveva interrotto.
Il maresciallo Silvani aveva esordito con
un "Buon giorno!" fuori
luogo, tipico di chi ha la delicatezza di un elefante, ma i presenti non
avevano di certo fatto caso alla cosa. Diede ordine ai suoi subordinati di
avvisare i dipendenti dello studio che in giornata avrebbero dovuto mettersi a
disposizione per alcune domande e che non avrebbero dovuto assolutamente
toccare niente perché da quel momento lo studio era diventato luogo di
indagini.
Samuele era quasi intontito, non riusciva
a capacitarsi dell’accaduto, perché aveva riposto in quel lavoro la speranza di
una vita e l’ingegnere rappresentava per lui come una sorta di porta per il
Paradiso, da quando era alle sue dipendenze aveva potuto accedere a risorse
precluse ai comuni mortali. Per Damiani, Samuele era quasi un figlio, lo aveva
accolto con affetto e lo aveva preparato ad affrontare molte situazioni
lavorative difficili, tanto da mandarlo in giro a sbrigare personalmente gli
affari per conto suo. Una volta, ad
esempio, bisognava convincere l’assemblea dei sindaci della provincia di Ibla
sulla bontà di un progetto di smaltimento dei rifiuti intercomunale che avrebbe
fruttato allo studio più di un milione di euro e l’opera di convincimento fu
affidata proprio a Samuele che l’aveva condotto in porto brillantemente,
ripagando la fiducia dell’ingegnere.
"Non riesco a credere ancora che
sia vero", diceva Samuele al maresciallo Silvani che lo interrogava,
"fino a ieri era qui in ufficio come sempre e niente faceva credere che
potesse accadere una tragedia simile".
"Lei è a conoscenza di eventuali
nemici dell’ingegnere che avrebbero potuto compiere un gesto del
genere?", "Ma assolutamente no, non vedo per quale motivo
qualcuno potesse avere avuto motivo di uccidere l’ingegnere Damiani, è sempre
stato un uomo rispettabile". Samuele sapeva in cuor suo che quella era
la risposta sbagliata, ma aveva deciso di stare fuori da quella faccenda. Anche
se doveva molto a Damiani non poteva permettersi il lusso di spingersi troppo
oltre, perché di cose ne sapeva e anche di molto importanti, ma
inevitabilmente, parlarne l’avrebbe esposto a rischi davvero troppo grossi.
D’altronde se qualcuno aveva assassinato
il suo capo addirittura in casa sua, non avrebbe avuto certo problemi a
liberarsi di lui e di chiunque altro avesse messo legna sul fuoco.
"Credo che questa indagine ci riserverà delle sorprese" disse
Silvani, " e qualcuno qua dentro dovrà trovare il coraggio di parlare,
altrimenti …" e si fermò li. Da quella giornata di interrogatori venne
fuori solo che Damiani era un gran signore, amato e rispettato da tutti e che
ognuno di loro aveva ricevuto solo del bene dall’ingegnere.
Nella
villa di campagna dei Damiani, un antico casale interamente restaurato,
situato sulle colline tra Ibla e Ippari,
tra alberi di carruba e vigne, gli investigatori erano intenti ad
esaminare la scena del crimine. Il giardiniere era ancora visibilmente turbato
dalla visione che si era trovato davanti agli occhi quella mattina: il corpo completamente
nudo dell’ingegnere era stato legato per i piedi a testa in giù ad un asse di
legno del pergolato e poi sgozzato. Il sangue era stato raccolto in una bacinella
sotto la testa; la lingua fuori dalla bocca e gli occhi ancora pieni di
terrore, dimostravano che era stato sgozzato vivo, proprio come si fa con i
maiali.
In alcuni omicidi di mafia, questa tecnica
veniva utilizzata dai sicari dei boss per eliminare degli affiliati che avevano
fatto dei gravi torti alla famiglia o che avevano scopato la donna di qualche
capo mafia. Nella provincia di Ibla però, non erano soliti avvenire questi
episodi cruenti quindi la faccenda si faceva piuttosto complicata, oltre che
golosissima per i giornalisti, vista anche l’importanza del personaggio.
"Penso che l’ingegnere Damiani sia
stato ucciso ieri in serata, ma non posso essere più preciso perché il corpo è
stato esposto al gelo della notte e quindi non ho nessun rilevamento
attendibile della temperatura del fegato che mi indichi un’ora approssimativa
della morte. Posso solo dire, dalla mia esperienza, che questo sangue non è qui
da più di 12 ore". Il medico legale aveva tratto le sue conclusioni dalle
prime impressioni avute dall’esame veloce del corpo di Damiani e aveva aggiunto
inoltre che l’arma del delitto doveva essere stata il grosso coltello poggiato li vicino, che
probabilmente era stato pulito, per non permettere il ritrovamento di qualche
impronta.
Di certo i Carabinieri del luogo non
avevano mai assistito a un delitto simile e anche il modo di approcciarsi ad un
fatto del genere risultava un po’ improvvisato. Ma la locale caserma dei
Carabinieri era diretta da un uomo di grande esperienza, reduce da 15 anni di
lotta antimafia nella provincia di Palermo e di omicidi ne aveva visti a
dozzine, il comandante Sinagra.
L’ufficiale si era recato personalmente
sul luogo del delitto e aveva chiesto a tutti la massima cautela e discrezione,
era importante cercare di non contaminare la scena e soprattutto evitare che
venissero fornite all’esterno notizie errate che avrebbero potuto nuocere alle
indagini. Anche per lui, comunque, la situazione era pesante da digerire,
quell’uomo lui lo conosceva bene, tante volte erano stati insieme a cena con
altre autorità della città e nonostante sapesse bene che tipo di soggetto era
Damiani, aveva trovato piacevole conversare con lui e condividere quelle
serate. Nelle stesse occasioni aveva conosciuto la moglie, Grazietta Damiani,
figlia dell’imprenditore del cemento Giardino, di parecchi anni più giovane di
lui, bella e gentile come poche, aveva sposato l’ingegnere da qualche anno e
aveva preso il posto della sua prima moglie, morta di cancro nel 1997 mentre
era ancora sindaco di Ibla.
Sinagra era rimasto affascinato da questa
donna, sempre col sorriso sulle labbra rosa, spesse e lucide di rossetto, con
quel trucco leggero che dava risalto ai lineamenti mediterranei, tipici delle
donne arabe. Occhi grandi e scurissimi, come i suoi capelli, che portava lunghi
sulle spalle piccole e affusolate, che contrastavano con un seno prosperoso al
punto giusto, portato in bella mostra mai in maniera volgare. Aveva ancora in
mente il profumo di quella donna, mentre una sera, a cena dal prefetto, si era
presentata insieme al marito, avvolta in uno splendido abito da sera bianco che
gli accarezzava le curve perfette dei fianchi e del sedere, e si era lasciata
baciare la mano lasciando su quella di lui una fragranza dolciastra e
ammaliante. Il comandante Sinagra aveva sentito quel profumo sulla sua mano per
tutta la serata e spesso aveva cercato la donna con lo sguardo, incuriosito.
Davanti alla scena del marito sgozzato come un animale, aveva provato un senso
di fastidio pensando a lei, come se avesse in effetti associato la figura
dell’ingegnere a quella di un maiale.
Cancellò in fretta quei pensieri e si mise
a lavorare sul caso, cercando ogni possibile particolare che lo potesse aiutare
a capire come si erano svolti i fatti.
Oltre al coltello in bella mostra, Sinagra
notò che gli schizzi di sangue non avevano sporcato un’ampia zona di fronte al
corpo, come se li ci fosse stato qualcosa o qualcuno. Il taglio alla gola però,
non poteva essere stato praticato da una persona in quella posizione, perché
l’angolo della ferita indicava un taglio che andava verso le spalle del morto,
come se fosse stato inferto da dietro.
Questo particolare incuriosì parecchio il
carabiniere che chiese conferma al medico se questa eventualità era possibile:
"Credo che abbia ragione comandante, guardando il senso del taglio credo
proprio che sia stato inferto alle spalle del poveretto, per capirci come nei
film quando uno ti viene da dietro mentre sei seduto in macchina e ti
sgozza!". Sinagra non gradì il paragone, ma la conferma del dottore era
importante.