mercoledì 29 maggio 2013

Na nova jurnata

Sentu sunari i campani, a genti n’te strati, chi sta succidennu?
Carusi chi portunu festa sa strinciunu anzemi comu fussi n’orchestra.
Viniti, accurriti cuntenti, mustrati li denti, u duluri nun si senti,
oggi è na nova jurnata, scinniti n’ta strata, cu ridi nun si penti.

Cummari Peppa curriti, puttati i vistata turnaru i marita,
a guerra santa finiu, cu vinciu e cu piddiu, pi niautri nun cancia.
Riciunu ca fra n’annata si cancia sunata, ni fannu na strata
E poi ni portunu un trenu accussì si vulemu partemu pi supra.

Patri picchì vi incazzati, non vi preoccupati, si chiama progressu,
‘ca siemu truoppu arretrati, spartemu lu pani cuccù n’avi bisognu.
I sordi do matarazzu l’avemu a livari, a banca a campari,
u latti di li to vacchi l’avemu n’te pacchi, nun servi surari!
Accatta na televisioni can un si po stari sempri a parlari,
megghiu ca genti nun senti accussì semu tutti felici e cuntenti.

Figghiu sta terra crisciu e oggi muriu cu tia ca mi parli,
è veru semu pizzenti, ma megghiu st unenti di sa società.
Io sugnu un poviru vecchiu e pi tia nun capisciu e forsi hai raggiuni,
scinni n’ta strata a cantari ma lassimi stari a me libertà.

http://www.youtube.com/watch?v=1VjJSB1_PvA

martedì 21 maggio 2013



Volevo raccontarti una storia, magari non significa niente o può significare tutto, dipende da te.

Ho passato anni della mia vita a rincorrere qualcuno senza saperlo, magari confondendolo con altri, dividendo i minuti di allegria o di rabbia o di passione con altri ancora. Ho vissuto pure storie d'amore, almeno sembravano tali, con  l'intensità che merita il presente che crede ad un futuro. 
Eppure il tempo, piano, ha mischiato le carte, ha confuso amore, rabbia, passione, rendendo il presente passato e il futuro sperato un presente diverso.
Ognuno ha la sua storia, la scrive senza accorgersene e poi ogni tanto trova delle pagine da rileggere e pur volendo riscriverle non ci riesce, non può più; nasce allora il proposito di scriverne altre in modo diverso, ma spesso dopo anni ci si accorge che le si è scritte nello stesso identico modo. 
Allora dove sta il senso? E' forse un destino preconfezionato, una storia già scritta che ci segna per sempre? No, non lo è mai.
Tanti anni fa ho incontrato Eva assolutamente per caso, senza premeditazione e senza neanche pensare di voler continuare a farlo.
Non era sesso e non era passione ciò che c'era nelle uscite con gli amici, accompagnate a volte dalla birra che si consumava in strada, vivendo le notti di Catania, con sobrio "sballo", attenendoci al protocollo di un gruppo di studenti moderni. 
Un giorno, uno di quelli che non ti aspetti, ho deciso di innamorarmi. L'ho fatto dopo che già mi ero innamorato e non lo sapevo, l'ho fatto perchè la persona che non mi aspettavo si è innamorata di me. 
Eppure non sono stato bravo a fare il famoso "primo passo", credo di non esserlo stato mai in vita mia.
Allora le strade prima affiancate si intrecciano, diventano le corsie di una stessa strada. Tu ci cammini sopra e man mano scopri cose che non vedevi, eppure erano li, a due passi da te. Ovvietà che fino a quando non scatta il momento non vedi.
Eva ha fatto il primo passo, il bacio furtivo che mi diede, come sulla mela del Paradiso, mi ha trasformato la vita per sempre.
Oggi sono 12 anni che stiamo insieme, abbiamo dato vita a due bambini meravigliosi e continuiamo a camminare lungo la nostra strada, insieme. Siamo felici? Credo di si, credo che 12 anni fa quando stavamo nella stessa stanza a condividere amici e birra, non immaginavo che lo saremmo stati.
Oggi, dopo aver vissuto questa fetta di vita, penso di doverti dire una sola cosa: non avere  paura di provocare l'amore, oltre la morte è l'unica cosa che rimane davvero.
Non avere paura di confessare a te stesso che sei pronto ad unire la tua vita a quella di qualcun'altro, siamo fragili oltre le corazze, tanto vale buttarle vie e sentire sulla pelle la dolce carezza dell'amore che disarma. Allo stesso modo, non aver timore che quelle carezze non arrivino mai, succede sempre quando meno te lo aspetti ed proprio per questo che devi lasciare aperta la porta....

sabato 27 aprile 2013

Ragionando dello Spirito Santo.


La nostra fede ci permette di accettare la verità tutta divina della Santissima Trinità, poiché l’uomo, con la sua materialità, senza il supporto della fede non potrebbe comprenderne a pieno la bellezza e l’unicità. Il figlio, con la sua umanità, ci ha svelato non solo la sua identità ma anche e soprattutto colui che sempre fissa, cioè il Padre. Nella nostra mente e non solo, del Padre e del Figlio siamo capaci di disegnarne i tratti, ma lo Spirito per definizione stessa non ha volto e non suscita una rappresentazione umana. Universalmente lo si accosta al vento, al respiro, al soffio: salvifico, che da vita, che regola l’universo stesso.
Esso è impalpabile, ne sentiamo la voce, lo riconosciamo nei segni ma non sappiano ne da dove viene ne dove va. Lo Spirito agisce attraverso un’altra persona, possedendola e trasformandola, facendo in modo che essa possa compiere gesti straordinari, manifestandosi così per mezzo dell’uomo stesso. Chi lo porta dentro di se lo conosce, perché dimora in esso e per mezzo di lui agisce e compie meraviglie.
Lo Spirito di Dio viene spesso associato ai simboli della natura, l’acqua, il fuoco, l’aria e il vento, poichè non comportano figure distinte ma evocano l’irruzione di una presenza, come una forza espansiva irresistibile che parte dal profondo. Ci ricorda che Dio è mistero, in maniera imperiosa e che non si può dimenticare, ci da la certezza che il Signore è lo Spirito.
Lo Spirito di Dio è come una forza divina che trasforma le personalità umane per renderle capaci di atti eccezionali, che confermano la vocazione del popolo ad essere servo di Dio. E venendo da Dio e portando l’uomo nella direzione di Dio, lo Spirito è Santo e santificatore.
Il sacrifico di Gesù ha permesso alla sua Chiesa di ricevere la “trasmissione” delle Spirito: fino alla sua morte sembrava che fosse circoscritto nei limiti della dimensione umana del Figlio, ma con la morte, il Cristo effonde sull’umanità salvata lo Spirito. La Chiesa, dunque, nasce dallo Spirito, come ogni cosa che ha origine da Dio, presente da una parte con il compimento di atti eccezionali e dall’altra, con questi segni, che attestano che la conversione è possibile e che attraverso il perdono dei peccati Dio effonde il suo Spirito.
Lo Spirito di Dio è lo Spirito di Gesù, ne fa ripetere le gesta, fa annunziare la parola, perpetua nella frazione del pane il suo ringraziamento, conserva l’unione tra i fratelli e consente loro di perpetuare l’azione della Chiesa. Esso rende giusta l’umanità peccatrice, animandola e sostenendola interiormente, accompagnandola nel cammino di santificazione fino alla fine attraverso la preparazione della giustificazione che realizza e mantiene, perfezionandola fino al Regno dei cieli.
Portare lo Spirito di Dio dentro di noi ci illumina, ci rende capaci di operare il bene, ci da gioia e pace e se veniamo riconosciuti dai nostri fratelli come virtuosi, rendiamoci conto che non è solo merito nostro, ma proprio dello Spirito Santo che in noi dimora e agisce. Pur tuttavia, non dimentichiamo che Dio ci ha creati liberi e dunque lo Spirito sostiene il nostro cammino, ma siamo noi a deciderne la direzione, siamo noi che scegliamo liberamente fra il bene e il male e per questo ne riceveremo le ricompense, in un senso così come nell’altro.

A. Maiolino

Viaggio su carta di un vagabondo

Dal 1995 al 1998 la mia insana voglia di esprimermi con qualsiasi mezzo mi ha portato a realizzare parecchi disegni, alcuni andati perduti, altri conservati per sbaglio. Fra questi ne ho scelto alcuni che pubblico nella mia pagina, a ricordo del mio viaggio fra le matite e i colori, appena fuori dall'adolescenza.

Ritratto di Augusto Daolio - matita su cartoncino - 1997

Crepuscolo - matita su cartoncino - 1997

Crisalide - cera su cartoncino - 1998

Voluttà - matita su cartoncino - 1998

Ipocrisia - matita su cartoncino - 1995

In vino viaggiare - acquerello su cartoncino - 1995

Omertà - matita su cartoncino - 1997

martedì 23 aprile 2013

Quando a volte sporco d'inchiostro un pezzo di carta....


Lungo il cammino, senza pretese, butto giù delle parole che insieme fanno frasi che cercano di rappresentare ciò che penso in quel momento. Per questo uso annotare data e orario, in fondo è come seppellire un pensiero ed è bello, dopo tanto tempo, ricordare quando mi ha lasciato.
Qualcuno lo voglio condividere con chi legge.



6 gennaio 2008 2:48

Potremmo essere capaci di riempire lo spazio con gradevoli sensazioni di benessere mentale
utilizzando le tipiche proprietà benefiche dell'amore ma preferiamo essere uomini e come tali sappiamo svuotare lo spazio di ogni gradevole sensazione.
Avrei voglia di comunicare con i miei simili attraverso la forza del pensiero, ma rischierei di non essere percepito, allora scelgo di dipingere l'aria con il mio corpo, descrivendo motivi di pace e mitezza. Ho scelto di riempire il mio spazio di questi disegni, affinché altri possano copiarli.


8 aprile 2009 12:25

E la vita fugge via, come un lampo, uno sparo, un alito di vento. Le parole sono suoni che si perdono nel nulla, rimangono le grida dell'anima che non sentirà nessuno. Viviamo allora la vita, viviamola fino in fondo, con coraggio e passione e curiosità e forza, affinché quelle grida non rimangano per sempre dentro di noi.


21 dicembre 2009 8:48

La smania di cercare una strada, l'affanno nel respirare ogni centimetro cubo d'aria disponibile come fosse l'ultimo: quando si è sul cammino della vita senza la persona giusta accanto si vive sempre in questa dimensione incompleta, con un senso di disagio non compreso. Io ho te e il mio cammino è sereno anche in vicoli bui e sconsolanti.

09 ottobre 2011 21.35

A volte, mentre essere così lontano da casa mi aiutata a pensare in modo più distaccato, immagino gli abitanti della terra come tanti puntini di un gioco enigmistico: uniti tutti i punti con una penna, ognuno di essi ha una connessione con gli altri. Dimenticando di unirne qualcuno però, il disegno non viene fuori!

12 ottobre 2011 02.05

Lungo la strada che odora di pioggia, mentre i miei passi si confondono al rumore delle gocce che si infrangono sull'asfalto, guardo i fari delle auto che si incrociano e si confondono e incessante la mia sete brama il cammino. Ieri e oggi e domani, come una fiamma che non si spegne, il mio essere vagabondo consuma la vita e si abbandona a lei.

12 ottobre 2011 22.22

Da bambino passavo i miei pomeriggi diviso fra il piccolo cortile di casa e il torrente, trovando nelle pietre, nei rami, nelle lucertole e nei fiori, migliaia di giocattoli e sorrisi. I miei tre amici erano complici, fedeli, presenti e ci chiamavamo gridando il nome dal ponte. Questo tesoro mi è rimasto nel cuore, è parte di me, dell'uomo diverso che sono adesso, lontano dal torrente e vicino al mare.

14 ottobre 2011 16.58

Giorni e giorni alla ricerca di una verità che alla fine è sempre stata li: non può esserci altro scopo per vivere se non morire avvolti nell'amore degli altri. Siamo anche ciò che facciamo, perché quello che facciamo non può prescindere da quello che siamo. L'oltre è solo una porta nella stanza accanto a quella in cui abbiamo sempre vissuto, ma nella stessa casa.

16 ottobre 2011 19.56

A volte ho provato a dirle di no, ho schivato i suoi abbracci, le ho raccontato bugie per nascondere i miei sentimenti, ho anche pensato di abbandonarla a se stessa, lasciandola scorrere come un pezzo di legno nel fiume. Ma alla fine, con una forza che non ha eguali, la vita mi ha stretto a se e mi ha insegnato come sia meravigliosa.




17 ottobre 2011 19.56

Nello specchio della mia mente si riflette l'immagine dell'uomo che ero, nello specchio del bagno ogni mattina, si riflette l'immagine dell'uomo che sono. Eppure avrei giurato di non ricordarmi così invecchiato! E' in questi casi che penso sia meglio non riflettere! Devo ricordarlo al mio specchio...

17 ottobre 2011 20.06

I rimpianti: una brutta cosa davvero, a volte sono capaci di costruire prigioni dalle quali è impossibile scappare. Ma a nessuno piace essere prigioniero, specialmente di se stesso, allora mi piace credere che tutto sia possibile e vada vissuto,  affinché il passato sia una storia da raccontare e non una catena alla quale legare il futuro.

18 ottobre 2011 22.29

Non abito più nelle terre spensierate dell'adolescenza, ancor prima ho abbandonato il calore della fanciullezza, la mia casa sarà per qualche anno il treno veloce della maturità. Penso spesso all'ultima stazione, la più buia e isolata alla quale dovrò scendere, a volte con un po' di timore altre con curiosità. Questo viaggio lungo una vita, breve o lungo che sia, spero di finirlo con la valigia piena di innumerevoli emozioni, poiché ciò che mi ha emozionato e mi emozionerà avrà dato un senso a tutto questo. E poi, per una volta, sarò felice se il treno porterà ritardo.....

25 ottobre 2011 10.47

Un altro giorno di cammino sulla mia strada, i piedi fanno male ma il cuore batte ancora. Il sole già un po' malato mi avverte che l'inverno arriverà presto, con i suoi maglioni di lana e i cappotti, colorando di grigio il cielo sopra la mia testa. Eppure vivere ogni giorno l'estate dei sentimenti mi riscalda e mi disseta e il mio cammino sulla strada ha un senso, verso l'inverno o la primavera non importa, perché loro sono con me, fino alla fine.

27 ottobre 2011 12.30

Mi è stato detto che Dio non esiste, inventato per la necessità viscerale di spiegare la fine, inaccettabile e ineluttabile. Io credo, in Dio, non negli uomini di Dio, almeno non alla maggior parte di loro. Ma seppur fosse vero che Dio è la più grande bufala dell’umanità, se il credere ci spinge a migliorarci, a vivere nel rispetto degli altri per il timore di un “dopo” infernale, preferisco questa “falsità” rispetto al materialismo un po’ fanatico di chi deride la fede. Alla fine è più facile pensare che tutto si conclude con la morte, ma amici miei, quanto è triste! Meglio una falsa speranza….

1 novembre 2011 00.10

Adoro sentire parlare della morte inneggiando alla vita, ricordando il cammino che porta alla stanza accanto. Quella porta, prima o poi, la varcheremo tutti, ognuno con le grida strazianti alle spalle. Allora, quando sarà il momento, non vorrei ascoltare altro che un arrivederci, mentre porto la mia valigia piena di emozioni. E se ne avrò dimenticate alcune, vorrei che fossero gli altri a ricordarle per portarle a loro volta nella loro valigia. Se così non fosse, avrei sprecato la vita che perderò.

15 ottobre 2012

Sono nato con le radici nella terra del fuoco, li dove il cuore per farsi sentire batte più forte che altrove. Mi fu destinata una vita da viaggiatore, affinché il mio cuore dovesse battere ancora più forte, per farsi sentire li dove i miei piedi affondano le radici. Eppure la pioggia ha lo stesso calmante profumo ovunque mi trovi a farmi bagnare.

2 novembre 2012 19:12

Nelle pieghe dei giorni, quando mi capita di ticchettare con le dita sul bordo della sedia o sul piano del tavolo, lascio i pensieri infilarsi e scorrere fra le mani, sotto i battiti dei polpastrelli, quasi a schivare i colpi. Mi sorprendo ogni tanto a bloccarne qualcuno, se vale qualcosa lo metto in tasca, altrimenti continuo a ticchettare e lo lascio andare via come si fa con le cose inutili.



14 gennaio 2013 01:10

Deserti, certi pensieri sono così, aridi e apparentemente privi di vita. Ci cammini dentro per giorni, disperato, sudato e assetato, in cerca di un miraggio che ti consoli o che ti faccia sperare ancora. Ed ecco, ad un passo dalla disperazione che ti fa arrendere alla sabbia, un attimo prima di lasciarti cadere e consumare dal sole, arriva la pioggia fresca e abbondante di un pensiero nuovo, che muta tutto in verdi colline e grida di uccelli festanti. Solo pensieri, niente altro che pensieri, eppure fanno di tutti noi degli esseri umani.


23 aprile 2013 18:30

Venne la sera e cancellò l'arsura dal corpo, sentivo il lamento della sete mentre veniva soffocata ed era come godere con tutti i sensi in festa.

sabato 20 aprile 2013

Estratto dal libro "L'ingegnere" di Alessandro Maiolino



Questa è la mia prima esperienza da scrittore con la "s" minuscola, un libro scritto tutto di un fiato e che una casa editrice del nord ha accettato di pubblicare. Spero di poter coronare questo piccolo sogno al più presto, intanto volevo condividere con gli amici un piccolo estratto dal primo capitolo, nella speranza che possa piacervi.

Alessandro Maiolino

L'ingegnere

Estratto dal Capitolo 1



Il rumore delle pentole sistemate negli stipiti era così assordante che non poteva far altro che svegliarlo. Ogni mattina sua madre, nel riordinare  la cucina, faceva da sveglia per tutta la casa e come ogni giorno Samuele apriva gli occhi sorpreso. Alle sette lo aspettava il viaggio per andare a lavoro, ma non riusciva mai ad arrivare puntuale perché il letto sembrava quasi legarlo e liberarsi dalla dolce morsa delle lenzuola era un castigo divino. Nella sua mente sognava una vita di ozio in un villaggio del Messico, padrone di un vecchio cascinale, a raccontare agli amici le storie delle sue avventure di caccia e di pesca, in giro per il mondo.
Ma alle sette e venti, quando alla guida della sua Alfa Romeo 159 grigia percorreva i 35 km che lo separavano dal suo ufficio, la realtà gli si ripresentava davanti senza nessuna possibilità di essere scambiata per il suo sogno, era sempre la stessa: doveva andare a lavorare.
Samuele Giordano, 30 anni, ingegnere capo in uno studio di progettazione, single per scelta, diceva lui, viveva con i suoi genitori a Cangi, un paesino sul mare della provincia di Ibla.
In paese tutti lo conoscevano per il suo modo di fare allegro, gentile, sempre disponibile con tutti, quel tipo di uomo che piace alle mamme per la sua educazione, quel tipo di uomo che piace alle figlie per la sua bellezza e il suo fascino.
"Hai sentito l’ingegnere stamattina?" chiese la segretaria a Samuele appena entrato nello studio, "No, figurati se appena sveglio penso al mio capo! Perché?", "Sono le otto passate e ancora non si vede, sai bene che di solito all’alba è già alla sua scrivania".
L’ingegnere Damiani, titolare dell’omonimo studio di progettazione, era un uomo sulla sessantina, alto, con pochi capelli bianchi e con due occhi azzurri da far venire i brividi a qualsiasi donna che lo guardasse. Aveva fatto la sua fortuna coltivando le amicizie giuste nell’ambito della politica provinciale, non disdegnando di scendere a compromessi pur di ottenere i risultati voluti.
Nell’ambito delle inchieste di tangentopoli, nei primissimi anni novanta, aveva subito delle indagini ma che non avevano portato a niente che provasse le sue presunte pressioni sul presidente della provincia Maniace, arrestato poi per aver ricevuto diverse mazzette dai boss locali per l’aggiudicazione di appalti  pubblici. L’ingegnere Damiani aveva saputo uscire indenne da quelle tempeste giudiziarie, grazie anche ad una straordinaria capacità di nascondere il suo nome e soprattutto perché non figurava mai in prima persona negli affari più compromettenti.
Da tutto quel trambusto, la sua figura ne era uscita rafforzata, facendolo diventare quasi un simbolo dell’accanimento della magistratura nei confronti di certi personaggi politici. Dalla seconda metà degli anni novanta, aveva legato il suo nome a quello del partito di Berlusconi, candidandosi come sindaco di Ibla nel 1995 e vincendo la competizione al primo turno.
Da allora aveva triplicato i suoi affari e aveva acquisito una popolarità straordinaria, ben oltre le mura della città, partecipando a diversi gruppi di progettazione di grandi opere pubbliche regionali e costruendosi la fama di uomo da tenersi caro, in tutti gli ambiti della provincia.
Ricevuti due mandati da sindaco, dal 2005 era stato eletto Senatore della Repubblica e lo studio di progettazione, fra i più grandi della Sicilia, era diventato il centro da dove dirigeva ogni sua mossa.
Samuele aveva avuto la fortuna di entrare a lavorare nello staff di Damiani grazie alle sue simpatie politiche per Forza Italia che lo avevano fatto conoscere nell’ambiente e incontrare con l’ingegnere ad un party elettorale. Da cinque anni, Samuele era entrato a far parte di questa cerchia ristretta di persone che potevano fregiarsi di lavorare per l’uomo più potente e ricco di Ibla.
"Hai provato a rintracciarlo al cellulare?" chiese Samuele a Daniela, la biondissima segretaria dello studio Damiani, "Certo" rispose, "ci provo dalle sette e mezza, ma non c’è verso, il telefonino squilla ma non mi risponde. Non avrei motivo di disturbarlo se non fosse per il fatto che alle nove deve firmare il contratto con la Star Oil, e volevo che controllasse che tutto era a posto per come mi aveva chiesto".
Erano le nove e mezza e lo studio era in completa agitazione, le ventuno persone che lavoravano al suo interno non sapevano più che pesci prendere e nella sala riunioni, l’amministratore e due ingegneri della Star Oil, la multinazionale che aveva incaricato Damiani di progettare le due nuove stazioni di pompaggio del greggio da realizzare in società con il senatore nei pressi di S. Giovanni, un’area montana della provincia, fingevano male di non essere spazientiti.
Alle dieci e un quarto, entrò nell’ufficio dell’ingegnere il suo vice, l’architetto Riannetti, che, pallidissimo, si lasciò cadere sul divano in pelle nera che c’era nella stanza: "Non è possibile, non è possibile" ripeté quasi in uno stato confusionale "Cosa è successo?", incalzarono quasi in coro Samuele e Daniela che stavano ancora tentando di rintracciare l’ingegnere al telefono, "qualche problema con il contratto?", "Damiani è morto" disse Riannetti.
Il gelo calò sui presenti, invano cercarono di proferire parola, alla fine Samuele chiese con un filo di voce "quando, come…". Asciugatosi il sudore e dopo aver bevuto un goccio d’acqua Riannetti raccontò di aver ricevuto una telefonata da parte della moglie dell’ingegnere Damiani che lo informava dell’accaduto: il giardiniere di famiglia, recatosi come ogni mattina al casale in collina, aveva trovato l’ingegnere brutalmente assassinato nella veranda della villa.
Le parole dell’architetto erano piombate nell’ufficio come una doccia gelida e allo shock della notizia seguì quasi immediatamente il caos della realtà, perché a pochi metri c’erano dei clienti che attendevano da un’ora e mezza e certo presentarsi con una notizia del genere significava, quasi sicuramente, perdere il contratto milionario, con conseguenze irreparabili per tutto lo studio. 
Riannetti fece tutto il possibile per rientrare in se stesso e si presentò ai rappresentanti della Star Oil con un’aria dimessa ma decisa: "Vogliate scusare il ritardo dell’ingegnere, ma purtroppo il contratto non può essere firmato dal senatore Damiani in quanto stamani è venuto a mancare". Aveva usato la formula più austera che aveva trovato nel suo sterminato vocabolario e non aveva sbagliato, perché l’efficacia della frase era stata immediata: con molto garbo i clienti si erano alzati, e porgendo le loro condoglianze si erano congedati pacificamente.
Appresa la notizia, tutto lo studio era scoppiato in uno sgomento silenzioso, che nemmeno l’arrivo dei Carabinieri aveva interrotto.
Il maresciallo Silvani aveva esordito con un "Buon giorno!"  fuori luogo, tipico di chi ha la delicatezza di un elefante, ma i presenti non avevano di certo fatto caso alla cosa. Diede ordine ai suoi subordinati di avvisare i dipendenti dello studio che in giornata avrebbero dovuto mettersi a disposizione per alcune domande e che non avrebbero dovuto assolutamente toccare niente perché da quel momento lo studio era diventato luogo di indagini.
Samuele era quasi intontito, non riusciva a capacitarsi dell’accaduto, perché aveva riposto in quel lavoro la speranza di una vita e l’ingegnere rappresentava per lui come una sorta di porta per il Paradiso, da quando era alle sue dipendenze aveva potuto accedere a risorse precluse ai comuni mortali. Per Damiani, Samuele era quasi un figlio, lo aveva accolto con affetto e lo aveva preparato ad affrontare molte situazioni lavorative difficili, tanto da mandarlo in giro a sbrigare personalmente gli affari per conto suo.  Una volta, ad esempio, bisognava convincere l’assemblea dei sindaci della provincia di Ibla sulla bontà di un progetto di smaltimento dei rifiuti intercomunale che avrebbe fruttato allo studio più di un milione di euro e l’opera di convincimento fu affidata proprio a Samuele che l’aveva condotto in porto brillantemente, ripagando la fiducia dell’ingegnere.
"Non riesco a credere ancora che sia vero", diceva Samuele al maresciallo Silvani che lo interrogava, "fino a ieri era qui in ufficio come sempre e niente faceva credere che potesse accadere una tragedia simile".
"Lei è a conoscenza di eventuali nemici dell’ingegnere che avrebbero potuto compiere un gesto del genere?", "Ma assolutamente no, non vedo per quale motivo qualcuno potesse avere avuto motivo di uccidere l’ingegnere Damiani, è sempre stato un uomo rispettabile". Samuele sapeva in cuor suo che quella era la risposta sbagliata, ma aveva deciso di stare fuori da quella faccenda. Anche se doveva molto a Damiani non poteva permettersi il lusso di spingersi troppo oltre, perché di cose ne sapeva e anche di molto importanti, ma inevitabilmente, parlarne l’avrebbe esposto a rischi davvero troppo grossi.
D’altronde se qualcuno aveva assassinato il suo capo addirittura in casa sua, non avrebbe avuto certo problemi a liberarsi di lui e di chiunque altro avesse messo legna sul fuoco. "Credo che questa indagine ci riserverà delle sorprese" disse Silvani, " e qualcuno qua dentro dovrà trovare il coraggio di parlare, altrimenti …" e si fermò li. Da quella giornata di interrogatori venne fuori solo che Damiani era un gran signore, amato e rispettato da tutti e che ognuno di loro aveva ricevuto solo del bene dall’ingegnere.
Nella  villa di campagna dei Damiani, un antico casale interamente restaurato, situato sulle colline tra Ibla e Ippari,  tra alberi di carruba e vigne, gli investigatori erano intenti ad esaminare la scena del crimine. Il giardiniere era ancora visibilmente turbato dalla visione che si era trovato davanti agli occhi quella mattina: il corpo completamente nudo dell’ingegnere era stato legato per i piedi a testa in giù ad un asse di legno del pergolato e poi sgozzato. Il sangue era stato raccolto in una bacinella sotto la testa; la lingua fuori dalla bocca e gli occhi ancora pieni di terrore, dimostravano che era stato sgozzato vivo, proprio come si fa con i maiali.
In alcuni omicidi di mafia, questa tecnica veniva utilizzata dai sicari dei boss per eliminare degli affiliati che avevano fatto dei gravi torti alla famiglia o che avevano scopato la donna di qualche capo mafia. Nella provincia di Ibla però, non erano soliti avvenire questi episodi cruenti quindi la faccenda si faceva piuttosto complicata, oltre che golosissima per i giornalisti, vista anche l’importanza del personaggio.
"Penso che l’ingegnere Damiani sia stato ucciso ieri in serata, ma non posso essere più preciso perché il corpo è stato esposto al gelo della notte e quindi non ho nessun rilevamento attendibile della temperatura del fegato che mi indichi un’ora approssimativa della morte. Posso solo dire, dalla mia esperienza, che questo sangue non è qui da più di 12 ore". Il medico legale aveva tratto le sue conclusioni dalle prime impressioni avute dall’esame veloce del corpo di Damiani e aveva aggiunto inoltre che l’arma del delitto doveva essere stata il grosso coltello poggiato li vicino, che probabilmente era stato pulito, per non permettere il ritrovamento di qualche impronta.
Di certo i Carabinieri del luogo non avevano mai assistito a un delitto simile e anche il modo di approcciarsi ad un fatto del genere risultava un po’ improvvisato. Ma la locale caserma dei Carabinieri era diretta da un uomo di grande esperienza, reduce da 15 anni di lotta antimafia nella provincia di Palermo e di omicidi ne aveva visti a dozzine, il comandante Sinagra.
L’ufficiale si era recato personalmente sul luogo del delitto e aveva chiesto a tutti la massima cautela e discrezione, era importante cercare di non contaminare la scena e soprattutto evitare che venissero fornite all’esterno notizie errate che avrebbero potuto nuocere alle indagini. Anche per lui, comunque, la situazione era pesante da digerire, quell’uomo lui lo conosceva bene, tante volte erano stati insieme a cena con altre autorità della città e nonostante sapesse bene che tipo di soggetto era Damiani, aveva trovato piacevole conversare con lui e condividere quelle serate. Nelle stesse occasioni aveva conosciuto la moglie, Grazietta Damiani, figlia dell’imprenditore del cemento Giardino, di parecchi anni più giovane di lui, bella e gentile come poche, aveva sposato l’ingegnere da qualche anno e aveva preso il posto della sua prima moglie, morta di cancro nel 1997 mentre era ancora sindaco di Ibla.
Sinagra era rimasto affascinato da questa donna, sempre col sorriso sulle labbra rosa, spesse e lucide di rossetto, con quel trucco leggero che dava risalto ai lineamenti mediterranei, tipici delle donne arabe. Occhi grandi e scurissimi, come i suoi capelli, che portava lunghi sulle spalle piccole e affusolate, che contrastavano con un seno prosperoso al punto giusto, portato in bella mostra mai in maniera volgare. Aveva ancora in mente il profumo di quella donna, mentre una sera, a cena dal prefetto, si era presentata insieme al marito, avvolta in uno splendido abito da sera bianco che gli accarezzava le curve perfette dei fianchi e del sedere, e si era lasciata baciare la mano lasciando su quella di lui una fragranza dolciastra e ammaliante. Il comandante Sinagra aveva sentito quel profumo sulla sua mano per tutta la serata e spesso aveva cercato la donna con lo sguardo, incuriosito. Davanti alla scena del marito sgozzato come un animale, aveva provato un senso di fastidio pensando a lei, come se avesse in effetti associato la figura dell’ingegnere a quella di un maiale.
Cancellò in fretta quei pensieri e si mise a lavorare sul caso, cercando ogni possibile particolare che lo potesse aiutare a capire come si erano svolti i fatti.
Oltre al coltello in bella mostra, Sinagra notò che gli schizzi di sangue non avevano sporcato un’ampia zona di fronte al corpo, come se li ci fosse stato qualcosa o qualcuno. Il taglio alla gola però, non poteva essere stato praticato da una persona in quella posizione, perché l’angolo della ferita indicava un taglio che andava verso le spalle del morto, come se fosse stato inferto da dietro.
Questo particolare incuriosì parecchio il carabiniere che chiese conferma al medico se questa eventualità era possibile: "Credo che abbia ragione comandante, guardando il senso del taglio credo proprio che sia stato inferto alle spalle del poveretto, per capirci come nei film quando uno ti viene da dietro mentre sei seduto in macchina e ti sgozza!". Sinagra non gradì il paragone, ma la conferma del dottore era importante.



Alessandro Maiolino

venerdì 19 aprile 2013

Come quel giorno cambiò la mia vita.


La mia vita aveva da poco subito un grande sconvolgimento, la mia famiglia si era trasferita a Pozzallo, in provincia di Ragusa e avevo lasciato il mio piccolo mondo conosciuto del paesino dove ero nato sulle pendici dei Nebrodi. Ma quell’estate la passai comunque a Sinagra, da mia nonna, dove ero vissuto sin dalla nascita. Era l’agosto del 1990 e il destino stava preparando per me un incontro che mi avrebbe cambiato la vita, per sempre. La sera scesi in piazza perché c’era uno spettacolo, i Nomadi in concerto! Non ne avevo mai sentito parlare, non sapevo chi fossero, che musica suonassero, niente. Poi iniziò il concerto, io ero in prima fila, attaccato alle tavole del palco ai piedi del bassista, non sapevo fosse per loro l’anno della rinascita dopo i momenti difficili vissuti dal gruppo per la spaccatura interna e per me fu soltanto un concerto fantastico, un carico di emozioni che non avevo mai provato prima, come se improvvisamente mi si fosse aperta una porta nascosta ma che era sempre stata li. Augusto Daolio mi aveva incantato, aldilà delle canzoni, con la sua presenza, con le sue parole, con il suo modo unico di stare sul palco. Da quel momento fu l’inizio della mia malattia nomade, dell’innesto nel mio DNA di quei cromosomi nomadi che avrebbero cambiato radicalmente lo sviluppo della mia vita.
Nei giorni successi al concerto iniziai a cercare dischi e tutte le informazioni relative ai Nomadi, per capire, per conoscere, come un bisogno incontrollabile, come una droga. L’anno successivo ero pronto per vivere a pieno l’emozione di un altro concerto, stavolta programmato e atteso per giorni, era sempre estate, il concerto si sarebbe tenuto a Castell’Umberto, un paesino a pochi chilometri da Sinagra, dove era nata mia madre. Nel pomeriggio ero in attesa che i miei mi portassero sul posto e giochicchiavo col la palla nel cortile della casa di mia nonna, quando una macchina si fermò li davanti e il conducente abbassò il finestrino per chiedermi un’informazione: “scusa per Castell’Umberto?”. Non riuscii a rispondere subito, avevo riconosciuto in quello sconosciuto Daniele Campani, il batterista dei Nomadi che con la sua famiglia si stava recando al concerto! Gli chiesi se potevo stringergli la mano e gli diedi emozionato le indicazioni che mi aveva chiesto e lui con un gran sorriso mi disse che ci saremmo visti la sera al concerto. Non stavo più nella pelle, corsi dentro a dire ai miei dell’accaduto e che non c’era tempo da perdere, mi dovevano portare immediatamente a Castell’Umberto!
Quando arrivammo sul posto, il palco era praticamente pronto, niente transenne, niente security, i Nomadi erano ancora quello che mi aveva fatto innamorare di loro all’epoca, un gruppo di persone atipiche, antidivi per eccellenza, che nel rapporto diretto con il loro pubblico vedevano il segreto della loro longevità artistica. Parlai a lungo con Dante Pergreffi, il giovane bassista che all’epoca aveva 29 anni, gli chiesi mille cose e lui con una grande cordialità rispose a tutte le mie domande. Poi fu il momento di conoscere Beppe Carletti, era li anche lui con la sua famiglia (all’epoca viaggiavano tutti insieme, specialmente quando si spostavano al Sud) e gli raccontai di essere un appassionato musicista, che avevo iniziato da piccolissimo a studiare musica e che ora ero semplicemente un nomade! Mi lasciò il suo indirizzo per poterci scrivere in futuro. Ma il trionfo delle mie emozioni arrivò poco più tardi quando davanti a me comparve Augusto, con il suo giubbotto di jeans sgualcito, la sua barba lunga e gli occhiali inconfondibili. La prima cosa che feci fu di chiedergli se potessi abbracciarlo e lui, con un sorriso magico mi disse “Ma certo, vieni qui!” e mi strinse forte!
Quella sera il concerto fu magico, ero al settimo cielo, ero ormai parte della famiglia nomade e tutto era più chiaro.
I mesi successivi furono una continua scoperta, cominciai a collezionare i vari dischi, ascoltando avidamente tutto ciò che trovavo e mentre i miei coetanei impazzivano dietro Vasco o i Litifiba, io ero fuori dalle mode, mi beccavo gli sfottò dei miei amici perché mi piaceva un gruppo di vecchi cantanti anni sessanta. Ma non afferravano, non potevano capire cosa significasse, dovevano entrare in quel mondo per comprenderlo veramente. La trasformazione di pensiero cominciava a trasparire anche esteriormente, i miei capelli erano sempre più lunghi, il mio aspetto non certo “curato e fashion”, ma era il mio status, era il mio essere nomade dentro un mondo di apparenze che non mi apparteneva.
Era una gioia grande quando per caso e in maniera del tutto eccezionale sentivo una canzone dei Nomadi alla radio oppure trovavo a notte fonda qualche trasmissione televisiva che li ospitasse, non sono mai stati molto avvezzi alla tv e debbo dire che anche questo è stato un bene, li ha impreziositi. Tutto scorreva così nei miei giorni, coltivando una coscienza civile profonda, legata ai temi sociali delle canzoni di Augusto, che mi faceva crescere consapevole di un mondo pericoloso, appariscente, poco interessato ai contenuti, che poteva essere però cambiato attraverso un atteggiamento consapevole, con una sana curiosità. Invece io mi arricchivo di altro, mi appassionava leggere autori lontani che erano alla base di molti dei testi delle canzoni dei Nomadi, sentivo dentro quella passione per gli ultimi, per le cose belle, per la vita in generale, senza sprecarne una sola goccia. E mentre la loro musica e le parole di Augusto mi plasmavano, il 14 maggio del 1992 arrivò una notizia tremenda: Dante Pergreffi era morto in un incidente stradale a soli 30 anni! Lessi l’articolo su di un quotidiano, in una mattina di scuola marinata come tante in quel periodo, ero insieme ad un amico che capì subito che per me significava qualcosa di più dell’apprendere una notizia di cronaca. Corsi a casa e presi un foglio di carta e una penna e scrissi una lettere ad Augusto, temendo che quel tragico fatto li avesse potuti convincere a smettere, visto il legame particolare che lui stesso aveva con Dante. Con mio grande stupore, qualche settimana dopo mi arrivò una cartolina che rappresentava un quadro di Augusto e dietro, le sue parole meravigliose, con le quali mi diceva di amare tanto la mia terra e che i Nomadi non si sarebbero fermati, avrebbero continuato anche per tutti gli amici che come me li avevano spronati. “Like a sea never die”, questa la frase conclusiva, che riprendeva il titolo di un loro doppio album live del 1987. Conservo quella cartolina gelosamente, come una reliquia, come il gesto d’affetto di un amico che in quel momento di sofferenza aveva trovato il tempo per rispondermi e rassicurarmi.
Io all’epoca facevo già pianobar, avevo 15 anni e mio padre mi portava in giro per i locali che mi avevano scritturato, un po’ in tutta la provincia di Ragusa: era strano vedere sto ragazzo con i capelli lunghissimi, dietro a tre tastiere che nei ristoranti, nelle pizzerie e nei bar cantava canzoni come Dio è morto, Canzone per un’amica, Io vagabondo!
Tutto scorreva nella mia vita da adolescente, i primi amori, la scuola che comunque andava avanti, tanti amici che mi volevano bene e per i quali ero “Alex il nomade”, un punto di riferimento. I Nomadi e in particolar modo Augusto erano diventati la mia religione, un modo di stare al mondo differente. Cominciai a scrivere poesie, dipingere a tempera e matita, mi sentivo in piena rivoluzione sociale, un cambiamento da testimoniare quotidianamente.
Era il 7 ottobre del 1992, ero in un bar del centro insieme ad un mio carissimo amico, una ragazza che mi aveva mollato il giorno prima entra e mi viene a dire: “Ti sei vestito a lutto?”. In effetti avevo una maglia nera e avevo inteso che lei si riferisse al fatto di avermi lasciato e con spavalderia le risposi che non me ne fregava niente! E lei mi disse: “come, non ti frega niente che è morto il cantante dei Nomadi?”. Fu come una fucilata, un pugno sferratomi in pieno volto che mi fece barcollare, mi dovetti sedere, mi sentii quasi mancare. Non poteva essere vero, era uno schifoso scherzo, una bufala!
Non lo era, Augusto Daolio era morto davvero, si era spento quella mattina a casa sua dopo mesi di una straziante malattia di cui il mondo esterno non sapeva niente, perché lo avevano tenuto al riparo da qualsiasi chiacchiericcio e forse anche per questo lui aveva continuato a cantare quasi fino alla fine, lottando con quel male per dieci mesi. Quindi quando mi aveva scritto era già malato, anche se le biografie ufficiali dicono che lui non ne fosse a conoscenza, ma nel mio cuore so che invece lui sapeva e fino alla fine ci ha regalato il suo sorriso e la sua voce indimenticabile, come un inno alla vita e non alla morte.
Seguirono giorni d’inferno, mi trincerai in casa, piangevo in continuazione come fosse morto mio padre. Avevo perso il mio punto di riferimento, l’esempio più importante della mia vita, colui che mi aveva insegnato tutto pur avendolo incontrato una sola volta. Non avrebbe mai più risposto alle mie lettere, non avrei mai più potuto abbracciarlo. Era chiaro che i Nomadi erano finiti, che si era scritta la parola fine su quella storia lunga quasi 30 anni e che io avevo imparato a conoscere solo da due. Mia madre non sopportava più il mio vivere rinchiuso in casa e fece una cosa che non avrei mai immaginato. Un pomeriggio mentre ero nella mia stanza sento suonare il telefono, mia madre mi viene a dire che era per me, prendo la cornetta e dall’altro lato del filo sento la voce di Beppe Carletti che mi saluta! Incredibile, mia madre aveva trovato il modo di contattarlo e si era messa d’accordo con lui affinchè mi chiamasse. Mi disse che la morte di Augusto era una cosa terribile, che per lui era stato come perdere un fratello e che tutto sarebbe stato diverso da quel momento. Che dovevamo ricordarlo per il grande uomo che era stato e per tutto quello che aveva donato a tutti noi. Ma la cosa più bella che mi disse fu che i Nomadi non si sarebbero fermati, che avrebbero continuato nel suo nome.
Fu come rinascere per me, avevo ricevuto un segno che quello su cui avevo investito gli anni della mia adolescenza era vero, era reale. Così cominciò a crescere dentro di me la voglia di avere qualcosa di mio con cui far conoscere a tutti Augusto, essere un esempio vivente di ciò che mi aveva lasciato. Nel dicembre del 1993 io e Rosario Giordanella, un chitarrista innamorato dei Dire Straits, costituimmo un duo con il quale cominciammo a fare qualche serata e nel gennaio del 1994, coinvolgendo altri tre ragazzi, nacquero i Samizdat, probabilmente la prima Nomadi cover band d’Italia. Da quel momento non ci siamo più fermati, una storia lunga 20 anni che racconta tutta la mia vita, tutto il mio amore per i Nomadi di Augusto, per la sua filosofia di vita. In quegli anni feci una promessa, che se avessi avuto un figlio, il suo nome sarebbe stato Augusto e così è stato, l’otto marzo del 2008 è nato il mio primogenito ed il suo nome è Augusto, come quel padre spirituale che mi accompagna ancora oggi nella vita, che mi ha insegnato ad essere attento, curioso, vigile, vivo e amante della vita.
Augusto Daolio ha saputo mettere fuori l’immenso pieno che la natura gli ha regalato sin dalla nascita. E’ stato un cantante, come tutti sanno, ma è stato soprattutto un pittore, capace di realizzare centinaia di opere uniche nel loro genere, con al centro sempre la natura e il suo legame ancestrale con l’uomo. Di questo Augusto è stato un grande maestro, del saper raccontare con tutte le forme dell’arte il rapporto uomo-natura sotto tutti gli aspetti: dalla simbiosi che lega questi elementi, alla capacità dell’uno nel sopraffare l’altro. E nonostante nelle sue canzoni o nei suoi dipinti abbia rappresentato anche la morte, non lo ha mai fatto senza sfociare poi nel racconto della vita. Si perché nelle canzoni si può parlare di morte, d’amore e di tutti gli altri aspetti della vita, ma l’intelligenza del cantante o dell’autore deve stare nel saperlo fare ricordandosi che ci si rivolge ad un pubblico che deve poter coglierne le sfumature positive, portare a casa qualcosa su cui riflettere e andare avanti sulla base di ciò che ha ricevuto. La canzone impegnata per Augusto era questo, non tanto parlare di politica come molti pensano, ma trasmettere un messaggio o meglio, raccontare una storia che possa poi essere assimilata e lasciare frutto, e farlo in tre minuti di canzone deve essere la scommessa da vincere, l’impegno.
Nel mio piccolo penso di aver seguito il solco lasciato da Augusto, scrivendo canzoni mai banali, almeno secondo i miei canoni, raccontando pezzi di vita con il rispetto che si deve avere per chi quella vita l’ha percorsa. E la mia prima canzone non poteva che essere “Canzone per Augusto”, con la quale a 17 anni esprimevo tutto quello che questo personaggio è stato per me e probabilmente anche tutto quello che sarebbe stato nel futuro, anche se non lo potevo sapere.
Credo che oggi la figura di Augusto vada rivalutata e fatta conoscere ai giovani, perché c’è un immenso bisogno di esempi positivi, di valori universali tangibili che possano aiutare a crescere e creare il proprio giudizio sul mondo. Non mi vergogno di quello che sono, non mi è mai importato di essere alla moda o di inseguire il successo musicale, avrei potuto farlo scegliendo esempi meno impegnati e sicuramente più “commerciali”, ma so che avrei tradito me stesso, quello che quel ragazzino di 14 anni aveva scoperto di essere in quell’estate del 1990 quando un gruppo degli anni sessanta si era presentato per la prima volta davanti a lui per cantare “Sempre Nomadi”.